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Treviso, ci siamo!

Dopo le due tornate elettorali e la meritata vittoria la coalizione Treviso Bene Comune ha definito la squadra che sosterrà in Giunta il lavoro del Sindaco Giovanni Manildo.

Oltre ai due neoleletti Consiglieri Said Chaibi e Pretty Raffaella Gorza, la rappresentanza della Lista La Sinistra Unita per Treviso si arricchisce della nuova Assessora Anna Caterina Cabino.

Auguri di buon lavoro a loro, al Sindaco, alla Giunta e a tutto il Consiglio Comunale.

Said Chaibi

said

Cittadino Italiano ed orgogliosamente trevigiano, Consigliere Comunale di Treviso.

 

Mi chiamo Said Chaibi e sono un “nuovo cittadino” o come preferisco, un ragazzo italiano come tanti. Mi sono da sempre impegnato in prima persona per il cambiamento in positivo della mia, NOSTRA, città.

Ho deciso di mettermi in gioco per potere dare il mio contributo al cambiamento reale perché NOI tutti trevigiani meritiamo di meglio.

Pretty Raffaella Gorza

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Avvocato del foro di Treviso sono Consigliere Comunale di tutti i cittadini trevigiani. Diritti. Ambiente. Lavoro. Sviluppo. Cultura.

Ha la delega per le Pari Opportunità e l’Integrazione.

Anna Caterina Cabino

Anna Caterina Cabino_Amministrative (1)

Generalità: 59 anni, nata a Rieti, residente a Treviso.

Studi: Laurea in Filosofia.

Professione: insegnante di storia e filosofia presso il Liceo Statale “A. Canova”.

Treviso, Anna Cabino assessore alla scuola, al personale e demografia
„Ha le deleghe
Ha le deleghe  per le politiche all’istruzione nelle materie demografiche e cimiteriali, le politiche per l’immigrazione ed emigrazione della popolazione, le politiche per l’organizzazione della struttura comunale (risorse umane e strumentali, logistica, informatizzazione, dati statistici) e per l’approvvigionamento dei beni e servizi.

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Considerazioni sull’agenda Monti, a proposito di scuola

di Anna Caterina Cabino

montiSi dice: “La scuola e l’università sono le chiavi per far ripartire il Paese e renderlo più capace di affrontare le sfide globali”. Ben venga il riconoscimento ufficiale di un dato di fatto che solo i ciechi potevano non vedere! Evidentemente Monti riconosce che la mancata identificazione di tale presupposto ha impedito finora di “invertire la rotta”. Nella necessaria genericità di un’agenda ci si aspetta di trovare i principi ispiratori di tale cambiamento. Vediamo, dunque come Monti intenda “invertire la rotta”.
Ci dice Monti: “Il modello organizzativo deve cambiare puntando su autonomia e responsabilità come principi fondanti”. A dire il vero i principi fondanti di ogni scelta e priorità, politica per i governi e personale per chi ha compiti di realizzazione, sono quelli costituzionali. Il DDL 953 (ex Aprea, parlando di autonomia e di responsabilità a iosa fa praticamente carta straccia dell’unitarietà del sistema dell’istruzione pubblica statale). Sarebbe stato opportuno quindi rinviare alla Costituzione, che, in maniera sintetica ed efficace avrebbe anche circoscritto l’ambito di interesse e di priorità del Governo della Repubblica alla scuola pubblica statale.
La parola – chiave è dunque “organizzativo”: l’impianto della riforma Gelmini individuava nell’assetto organizzativo (tradotto in termini di riduzione ed essenzializzazione dei curricoli, dei tempi d’insegnamento, degli ordinamenti, ecc …) lo strumento principe per la realizzazione dello smantellamento della scuola di stato. Quindi, in base al principio di carità, mi è lecito interpretare che sarebbe il modello organizzativo a dover cambiare. Sempre in base al principio di carità immagino che Monti si sia accorto che la riforma Gelmini non è all’altezza di quanto da lui sostenuto, in merito ai ritardi da imputare allo stile rivendicazionista di stampo “marxista” (sic!) che ha creato un grosso ostacolo alle riforme superato dalle “due importanti riforme dovute a Mariastella Gelmini e a Sergio Marchionne. Grazie alla loro determinazione, verrà un po’ ridotto l’handicap dell’Italia nel formare studenti, nel fare ricerca, nel fabbricare automobili”. A questo punto della lettura non mi è dato sciogliere il nodo. Quindi andiamo avanti.
Si dice “occorre completare e rafforzare il nuovo sistema di valutazione centrato su INVALSI e INDIRE”. Giustamente l’Istituto nazionale di valutazione del sistema scolastico e quello per la ricerca e l’innovazione educativa devono senz’altro essere riassestati, ma prima di tutto c’è da chiarire quale sia lo scopo di tale riassestamento.
Da notare che evidentemente per Monti (o per la sua Agenda) cambiare ha lo stesso significato di completare e rafforzare. Non mi sembra che sia così: il concetto di rafforzamento implica la valutazione positiva di ciò che si sta considerando. A nessuno verrebbe mai in mente di rafforzare ciò che desidera cambiare. Forse Monti pensa che i difetti di INVALSI e INDIRE siano nel fatto che il loro operato non sia completo. Ma in questo caso evidentemente si tratta solo di aggiustamenti che nulla cambiano nella sostanza. L’Agenda, infatti, fa riferimento ad una valutazione che si basi su “indici di performance oggettivi e calibrati sulle caratteristiche del bacino di utenza e dei livelli di entrata degli studenti”: l’attenzione è dunque tutta rivolta sul prodotto finale piuttosto che sul sistema di relazione tra tessuto sociale e metodi e tecniche di costruzione dei saperi.
La sostanza del cambiamento di rotta dovrebbe andare verso il superamento della logica produttivistica che è sottesa alle modalità nelle quali finora si è pensata la valutazione del sistema-scuola. Il modello dei test, peraltro scopiazzati da analoghe procedure del mondo anglosassone rischia di avere un effetto deleterio se diventa lo strumento di rilevazione. Non c’è miglioramento che tenga. La curvatura della didattica sul “teaching to the test” può essere evitata solo se la valutazione va nella direzione della comprensione al suo interno dei diversi fattori che interagiscono sui risultati dei ragazzi (clima educativo, qualità del sostegno allo sviluppo professionale del personale, servizi e offerte della comunità di riferimento- servizi, biblioteche, per es.-, livello di partecipazione collegiale e finalmente ruolo della dirigenza scolastica). Niente a che vedere con la visione aziendalistica del “premio di produttività”, anche perché nulla viene detto sui criteri in base ai quali stabilire la qualità dei “risultati raggiunti” che dovrebbero essere, date le premesse, “oggettivamente rilevabili”. La competenza degli insegnanti non è solo individuale (nel momento in cui insegna), ma si esplica anche sul piano collegiale. Non è misurabile in termini di “prodotti finiti”, ma in relazione all’apporto di carattere didattico e metodologico che nella riflessione collegiale è chiamata ad esprimere. Insomma Monti ha in mente una valutazione del prodotto, la scuola ha bisogno di una valutazione del processo. E tra le due cose c’è un abisso. Altro che completamento!
In sintesi: le scelte del governo dei moderati che si rifanno all’agenda Monti andranno nella direzione del deciso completamento e rafforzamento delle scelte finora timidamente inaugurate. Il modello valutativo finora adottato nella scuola verrà esteso ed ampliato. Alla scuola, ai docenti e ai dirigenti che otterranno risultati quantificabili dedicheremo qualche euro, solo dopo aver tagliato il debito pubblico.
Punto e a capo, dunque! Il MIUR (Università e Ricerca) continua a cedere il posto al MEF (Economia e Finanze). Ma non è una storia già sentita?

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Bastoni … Carote …. Sogni!

di Anna Caterina Cabino

Tra una parola e l’altra, tra un’immagine e un’altra la scuola pubblica italiana va avanti. Avanti nelle quotidiane eccellenze di tutti quelli che ci lavorano, che studiano e costruiscono se stessi nel confronto con le difficoltà di ogni giorno, con le incertezze del futuro, con la precarietà che prende l’anima e cha rischia di oscurare la capacità di progettare il futur

o e di radicarsi nel presente. Credo che questa sia l’immagine della scuola che giorno dopo giorno si sedimenta nella coscienza dei giovani e meno giovani che nell’universo scuola si trovano a vivere. In tutto questo la giornata del 24 novembre è un’occasione non soltanto per protestare contro i tagli alla scuola e all’istruzione pubblica che colpiscono il diritto al sapere di tutti, le condizioni salariali e contrattuali, le opportunità di lavoro dei precari e di chi precario non è, ma vede lo spettro dei tagli degli organici sempre incombente, contro la riduzione degli spazi di democrazia e la garanzia della parità di offerta formativa del sistema scolastico.
Il governo di un Paese deve saper scegliere se investire le proprie risorse sugli aerei da guerra o su edifici scolastici adeguati ad un’idea di scuola come spazio di vita.
Un ministro deve saper rinunciare a investire denaro in un concorsone beffa e ha il dovere di trovare le risorse per risolvere il problema della stabilizzazione dei precari (docenti e ATA) che non sono “usa e getta”.
Un esperto deve saper distinguere tra il tempo necessario a risolvere un quiz e il tempo qualitativamente adeguato ai nuovi saperi, e deve trovare le risorse per recuperare le ore che la controriforma Gelmini ha proditoriamente sottratto alla scuola, per le attività di laboratorio e per garantire la presenza del sostegno per chi ne ha bisogno.
Un tecnico deve essere consapevole che c’è differenza tra un sistema di valutazione burocratico e sostanzialmente ininfluente ai fini del miglioramento degli standard qualitativi e un sistema di valutazione che costituisca reale analisi dei bisogni e definizione degli interventi migliorativi del sistema complessivo.
Persino un economista deve riconoscere che la considerazione della scuola come luogo privilegiato per “fare cassa” nuoce gravemente al suo carattere di presidio formativo delle competenze e della cittadinanza.
Per questo la protesta del 24 novembre non è solo la rivendicazione di diritti sacrosanti: non si tratta di questioni contingenti, o di rivendicazioni settoriali. Se ferire la scuola pubblica significa colpire al cuore il presidio più solido della nostra democrazia, ostinarsi in una politica di austerità che è incapace di scelte essenziali, significa allargare la disuguaglianza tra chi può permettersi di sognare e chi non sente che i colpi del bastone, perché si vede umiliato nel suo diritto allo studio, al lavoro, alla dignità e alla cittadinanza.

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Lettera di una professoressa.

di Anna Caterina Cabino

Cari ragazzi e cari genitori è domenica e guardo i fogli dei compiti da correggere, ma oggi mi sono imposta di non metterci mano. Mi è venuta la voglia di raccontarvi quel che succede quando suona la campanella e il mio orario di lezione termina.
Di solito il rientro a casa comporta prima di tutto il ritorno, almeno per un paio d’ore, al mio ruolo di madre e moglie: il pranzo da preparare, il caffè e un’occhiata al quotidiano (cosa che non guasta mai) e poi in studio a preparare la lezione del giorno dopo.
Cosa potrò far leggere agli studenti per rendere più interessante e produttiva la lezione? Certo gli argomenti sono noti: una rivoluzione francese in seconda, un po’ di Kierkegaard in terza e la Reconquista e i Normanni o forse Eraclito in prima.
Tutto sommato sono anni che affronto gli stessi temi, direte voi … Non è proprio così: gli argomenti sono gli stessi, lo stesso è il suono della campanella ma non è mai la stessa cosa.. E sapete perché? I ragazzi che ho di fronte non sono mai gli stessi! Magari sono un po’ più pigri di altri, o più curiosi, o più silenziosi e più vivaci: sempre diversi.

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“a nuttata sta passando”

Lo avevamo sentito. C’era un’aria diversa, uno sguardo diverso, una curiosità viva e partecipe. In chi si avvicinava al nostro banchetto per firmare il sostegno alla presentazione della lista, in chi chiedeva il nostro giornalino “Liberi tutti”, numero “unico” per le scarse risorse economiche.

“Vorrei qualcosa da leggere di più, per conoscervi,” … “Preferisco il volantino, quello breve” …

“Ma dite che ce la faremo?”.

Mi guardavo intorno alla manifestazione di “Se non ora, quando?”, a quella in Difesa della Costituzione e della scuola pubblica, all’incontro con Landini, allo sciopero del 6 maggio, alla serata in ricordo di Ivan della Mea, alla manifestazione di chiusura della campagna elettorale e vedevo una Treviso diversa, quasi uscita da una sonnacchiosa palude in cui il berlusconismo tenta ancora di rinchiudere tante e troppe intelligenze. E mi sono convinta di una possibilità, anche a dispetto di chi riteneva che qualcuno di quei momenti fosse stato un fallimento.

I politologi si interrogheranno sui flussi elettorali e daranno senz’altro una risposta più articolata della mia: per la mia parte credo che il torpore si stia diradando, e che le persone stiano incominciando a domandarsi quale sia il prezzo da pagare ad un ceto dirigente che si è auto investito della licenza di violare ogni regola pur di restare abbarbicato al potere, di contrabbandare per sana amministrazione la riduzione dei posti letto negli ospedali, per attenzione ai cittadini il taglio delle corse degli autobus, per sana gestione della viabilità le rotonde pericolose e l’incuria della città e delle sue strade e per investimento lo spreco in opere faraoniche e sovradimensionate, mentre gli spazi per i giovani non esistono, le scuole scoppiano, le periferie sono abbandonate, il centro di Treviso si spopola.

Credo che le persone abbiano cominciato a provare fastidio per l’arroganza di chi non ascolta le giuste preoccupazioni dei cittadini per un aeroporto male assortito e pericoloso, per l’insano estremismo di certe farneticanti affermazioni contro gli insegnanti, contro i giudici, contro la Costituzione, contro gli esseri umani. Credo che ci sia qualcuno che ha visto con orrore i voti che una lista “Razza Piave” ha racimolato, mascherando col folklore il razzismo di chi “sparerebbe agli immigrati”o vorrebbe per loro dei “carri blindati”.

Credo che qualcuno abbia cominciato a capire che la Lega non può parlare di federalismo e scaricarne le spese sulle spalle delle persone, pubblicare manifesti truculenti contro Roma ladrona e stare dentro fino alla cima dei capelli nei Palazzi romani del potere (e non solo), parlare di sicurezza e favorire la violazione della legalità (vedi quote latte).

Credo che si stia sciogliendo quel venefico abbraccio che ottunde la mente e impedisce il giudizio critico, che indica orizzonti di paura e persuade a chiudersi nei propri piccoli egoismi o nella prigione dorata delle proprie sicurezze e garanzie, mentre la precarietà divora le nostre vite e uccide la nostra capacità di sperare e cuce sui corpi dei ostri giovani il vestito del disinteresse e della fannullaggine.

Quante voci in questa strana campagna elettorale: sotto lo sguardo superbo e ammiccante dai muri e dagli autobus delle gigantografie di Muraro, che aveva stravinto prima ancora di gareggiare, grazie ad una propaganda spocchiosa e spendacciona, da far tremare in un momento di crisi come questo.

Eppure ce l’abbiamo messa tutta: restiamo convinti che sia possibile cambiare. Anche qui, in Veneto, c’è un patrimonio di talenti da far emergere, da sottrarre alle sirene del facile successo e alle delusioni delle mancate vittorie.

Il risultato di SEL a Treviso significa molto, per noi, che prendiamo fiato, che abbiamo cominciato da 0,6 “perché ci siamo” (era a questo che pensavamo nelle regionali) e siamo ora al 3.6 in provincia e al 6.7 in città, per Treviso che può tornare ad essere la città che sorride, per la politica che può ritornare ad essere il luogo della ricostruzione della vita associata e di una spazio comune alla luce di un progetto alternativo alla Lega e al PDL.

Sì, parafrasando Eduardo: … ‘a nuttata sta passando”.

Anna Caterina Cabino

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Per la scuola

C’è una parola che non mi piace affatto: “inculcare”. Il presidente del consiglio l’ha usata a proposito dell’ultimo attacco alla scuola “di stato”. La scuola pubblica inculcherebbe, a suo dire,  valori che sono contrari a quelli che le famiglie vorrebbero inculcare ai loro figli. Questa parola “inculcare”  è un concentrato di becero autoritarismo. Questi eserciti di figli tutti inquadrati e tutti assolutamente certi dei valori che non hanno compreso e nemmeno condiviso, che gli sono stati inculcati prima e a prescindere dalla loro capacità di assumerli responsabilmente. Indottrinati, poiché questo è l’indottrinamento, pronti ad eseguire senza pensare o ad obbedire senza interrogarsi “mai” sul fatto che ciascuno è “responsabile” delle proprie scelte e che la scelta morale è sempre e comunque la “propria” scelta. I valori non stanno lì, belli e pronti, come le scatolette sugli scaffali del supermercato, non sono dei contenuti da travasare nelle teste vuote dei giovani, sono strumenti attraverso i quali educare alla responsabilità e alla cura della comunità nella quale si vive, la cui attualità sta nell’esempio e non nella retorica pomposa  di chi li adotta. Non sono parole da apprendere a memoria, ma orizzonti nei quali incardinare le decisioni che contano, Abbiamo una grande fortuna, la Costituzione è il punto di riferimento che sta alla base della nostra comunità: in essa troviamo quell’orizzonte che è insieme la condizione della possibilità di crescere come cittadini responsabili, attenti e liberi  in una scuola, appunto quella voluta dai Padri costituenti, in cui vige prima di tutto il rispetto, il confronto e il dialogo, tutti prerequisiti della libertà di cittadini e non di sudditi. Ed ora mi chiedo: quali genitori non desiderano questo per i loro figli?

Anna Caterina Cabino

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Parlare ai sordi!

E’ questa la sensazione si prova, considerando l’atteggiamento del ministro Maria Stella Gelmini nei confronti delle proteste degli ultimi tempi che hanno coinvolto gli studenti medi e universitari, questi ultimi affiancati dai loro professori e dai ricercatori, precari e no.

 

I nostri governanti, che, nella migliore delle ipotesi, hanno abdicato alla loro funzione in nome delle “esigenze di bilancio” o che semplicemente “non sanno” che cosa voglia dire, “fare politica”, non sono in grado di decodificarne il messaggio, che pure è forte e netto e si concedono ai giornalisti con frasi fatte buone per tutti gli usi, ma che non significano nulla. Detto subito, a scanso di equivoci assolutori, che il “non sapere” non è un’attenuante, per il semplice fatto che ignorare, per chi si arroga il diritto di governare è colpevole omissione, proveremo a “recuperare”, in breve il concetto.

Dunque: “fare politica” significa fare il bene dello stato e comporta che si abbia il senso dello stato, che si pratichi il rispetto delle norme fondamentali, che si abbia a cuore la cura degli istituti e degli organi preposti a realizzare livelli sempre più consolidati  della qualità della vita associata. Il senso dello stato comporta come conseguenza che ci si riconosca in un patto democratico e si rinnovi l’attaccamento alle istituzioni da parte dei cittadini, che trovano gli spazi di esercizio della partecipazione nei luoghi del lavoro e della formazione.

In questi due settori fondamentali, scuola e lavoro, il governo manifesta la sua arroganza e, di converso, la sua inconsistenza, perché proprio in questi due ambiti il suo intervento o è deleterio o è nullo.

Prima i danni: la riforma epocale della scuola e ora quella dell’università, imposte nonostante tutto, a colpi di accuse agli insegnanti, impenitenti fannulloni “col posto fisso” di rigurgiti restauratori e ai loro colleghi precari, che pretendono il “posti fisso”, di tutela di incompetenze o ai ricercatori (sic!), notoriamente agli apici della carriera accademica, di tutela dei privilegi dei “baroni”, sono state difese dal governo senza mai una parola sui contenuti e sui modi in cui la trasparenza delle carriere, la lotta ai nepotismi e la realizzazione di percorsi qualificanti e innovativi, il rispetto delle scelte di studenti e famiglie  si sarebbero realizzati. Gli slogan rimproverati ai manifestanti sono invece la forma prediletta della comunicazione politica del governo di centrodestra, che nascondendo con la fiction la realtà, comunica che “aumentano le classi a tempo pieno” nelle scuole italiane (siamo in dirittura d’arrivo per le iscrizioni per l’anno prossimo e verificheremo quante richieste sul “tempo – scuola” saranno soddisfatte, quante lunghe saranno le liste d’attesa per le iscrizioni nella scuola dell’infanzia statale), che non ci saranno licenziamenti (dopo le iscrizioni, si verificheranno gli organici nelle scuole e si stileranno ennesime graduatorie di “perdenti posto”), che grazie al “maestro unico” respinto dalla maggioranza delle famiglie italiane sarà garantito un insegnamento unitario e non dispersivo (mentre le classi vedranno ancora per il nuovo anno il numero degli alunni per classe salire a 27 a 30 a 32: numeri che rendono improponibile alcun intervento individualizzato), che lo studio delle lingue straniere sarà potenziato (conteremo il numero delle ore dedicato alle lingue straniere e ne trarremo le conclusioni).

Abbiamo detto più volte che sulla scuola si è abbattuta la mannaia del governo di centrodestra con una violenza tale da manifestare una sorta di rivincita a lungo sognata, una vendetta “fredda” e perciò più gustosa: colpire la scuola e l’università è stato colpire il cuore pulsante dell’intelligenza, il luogo della dove si impara a difendere i diritti e a esercitare lo scrupolo del dovere, dove si impara a distinguere l’autoritarismo dall’autorevolezza,  dove si incontrano persone con tante idee differenti e si scopre che è bello volare “fuori” dalle “piccole patrie”. Abbiamo visto intralciare la ricerca, condannare alla subalternità i nostri giovani, trasformare il luogo della libertà del sapere nella sudditanza ai poteri forti.

E veniamo al lavoro: di fronte al ricatto del potere economico il governo Berlusconi è ossequente, o soprattutto comunque e sempre silente. Da un governo di un paese democratico che nella sua giovane vita avrebbe dovuto aver appreso, almeno, che le istituzioni non hanno alcun vantaggio dal prender partito per l’uno o l’altro dei contendenti, ci saremmo aspettati un richiamo al rispetto dei diritti del lavoro, delle regole democratiche di rappresentanza delle organizzazioni dei lavoratori, e invece, silenzio o ammiccamenti, fino agli espliciti consensi plaudenti. D’altra parte con quale autorevolezza sarebbe potuta nascere una qualsiasi presa di posizione in direzione diversa?

Anche qui, manca il senso dello stato, l’educazione civica che aiuterebbe a condividere che Il lavoro non è un diritto tra gli altri. E’ la via attraverso la quale si costruisce la propria libertà dal bisogno, la propria libertà dalle segregazioni vecchie e nuove, la libertà delle intelligenze, lo spazio della condivisione e della responsabilità e della solidarietà. Per questo è contraddittorio il baratto tra lavoro o diritti. Se il lavoro torna a essere soggetto al ricatto dei più forti è la natura del patto sociale che sta alla base della democrazia ad essere messo in discussione: nello stesso momento in cui in nome del lavoro si calpestano i diritti, si allontana l’idea e la pratica di una vita associata intesa come tessuto delle opportunità uguali per tutti e tutte.

Ma per tutto ciò ci vuole la politica. Di fronte all’accusa di demagogia più volte ripetuta dai governanti nostrani, rispondiamo che le leggi di bilancio hanno regole che vanno rispettate e che se la coperta è corta è giusto che si scelga quale parte lasciare scoperta e quale coprire. Questo è il compito della politica: decidere dove investire le risorse che si hanno e come farlo alla luce di progetto complessivo, di una visione della vita, la cui mancanza è la colpa più grave di questo governo.

Anna Caterina Cabino

SEL – Circolo di Treviso

 

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I ragazzi non sanno scrivere?

colpa della sinistra, of course
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Bene! Il consigliere Piccoli del PdL di Treviso ha trovato il bandolo della matassa: la colpa delle difficoltà in italiano dei nostri ragazzi è da imputare agli insegnanti che votano a sinistra. Ci ostinavamo a pensare che i problemi fossero determinati da alcuni ritardi della scuola nell’attrezzarsi di fronte alle novità, ma anche dalla povertà dei messaggi dei media, dalla scarsa propensione alla lettura delle famiglie italiane, dalla confusione linguistica legata all’uso di un dialetto imbarbarito. Per anni abbiamo pensato che sarebbe stato necessario favorire i momenti di riflessione, aggiungere qualità al tempo – scuola, avvicinare gli studenti alle opere dei classici e dei contemporanei, favorire l’arricchimento del lessico e delle idee in momenti che andavano oltre l’ora di lezione, nei laboratori di scrittura, di lettura, di teatro. Pensavamo che sarebbe stato necessario aiutare i ragazzi a dominare i nuovi linguaggi, senza demonizzarli, ma scoprendone le potenzialità e i limiti. Certo, per questo sarebbe stato necessario potenziare il tempo – scuola e incrementare le risorse disponibili… ma un governo lungimirante avrebbe saputo senz’altro promuovere il cambiamento necessario alla bisogna. Invece… il problema era legato alle opinioni politiche degli insegnanti! Per questo bisognava colpire la scuola, il luogo nel quale i facinorosi si riunivano; bisognava sottrarre competenze, ridurre le ore d’insegnamento, cominciando da quelle dedicate allo studio della lingua italiana, tagliare le risorse in modo da impedire che accanto alle lezioni si svolgessero altre attività d’integrazione ai curricoli; bisognava aumentare gli alunni per classe, in modo da impedire ogni intervento mirato allo sviluppo dei talenti e al superamento delle difficoltà, continuando naturalmente a lamentarsi della dispersione scolastica (colpa degli insegnanti anche quella, naturalmente). No, Sig. Piccoli: le cose non stanno come lei dice. Prima di tutto è doveroso denunciare l’assoluta miopia di un governo che non è in grado di capire che la civiltà di un Paese si misura sulla capacità di offrire opportunità di crescita e conoscenza alle nuove generazioni, che non capisce che la scuola non è un servizio come gli altri, ma un Organo costituzionale, cioè un luogo deputato a realizzare i principi cardine della nostra democrazia, a costruire coscienze responsabili, critiche e sapienti. Per questi motivi, in scienza e coscienza mi sento in dovere di respingere la sua analisi.

ANNA CATERINA CABINO

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Giù le mani dalla brocca

Il referendum contro la privatizzazione dell’acqua:

una scelta pragmatica contro una scelta ideologica

di Anna Caterina Cabino – Sinistra Ecologia Libertà Treviso

Quando si parla di “acqua” una premessa è fondamentale: l’acqua non è un bene commerciale, ma un diritto di ogni essere umano che risponde a un bisogno primario (direttiva 2000/60/CE del Parlamento europeo e del Consiglio).

Nessun privato ha interesse ad accollarsi un servizio in assenza di un possibile profitto. La cosa non è di per sé da condannare, anzi è intelligente e ovviamente in linea con il sistema concorrenziale del libero mercato. Sennonché per ottenere tale profitto è, in alcuni casi, necessario ridurre costi e aumentare i ricavi attraverso, ad esempio, l’aumento delle tariffe o il taglio dell’offerta del servizio per chi dette tariffe non può sostenere.

Applicando all’acqua tale modello di ragionamento si verificherebbe, in nome del profitto, la tendenza a ridurre i costi attraverso l’aumento della precarizzazione del lavoro (si tratta di coloro che fanno sì che dai nostri rubinetti esca acqua di qualità), la riduzione dei costi di gestione (con conseguente peggioramento del servizio, o, addirittura, la sua interruzione per chi non è in grado di pagare), e l’aumento delle tariffe.

Queste affermazioni, che potrebbero apparire “di principio” e, come tali, improponibili agli ideologi del “fare”, valgono come ipotesi da verificare. Continua a leggere

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Un Veneto Nuovo e Diverso

per la scuola la cultura e la scienza

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